martedì 26 giugno 2012

UN UOMO DI GRANDE ELEVATURA: GANDHI



Oggi ospito sul mio blog un pensiero di una grande persona, una riflessione che soddisfa più la fame di verità che di cibo... senza verità non c'è cibo, nè per la mente nè per il corpo, e sono tanti, troppi coloro che, per mancanza di verità, ancora non hanno cibo, nè per l'una nè per l'altro...

"...Ho forte fiducia che se unite i vostri cuori, non solo le vostre menti, e capite il segreto dei messaggi che i saggi uomini d’Oriente ci hanno lasciato, e che se veramente diventiamo, meritiamo e siamo degni di questo grande messaggio, allora capirete facilmente che la conquista dell’Occidente sarà stata completata e che questa conquista sarà amata anche dall’Occidente stesso....L’Occidente di oggi desidera la saggezza. L’Occidente di oggi è disperato per la proliferazione della bomba atomica, perché significa una completa distruzione, non solo dell’Occidente, ma la distruzione del mondo, come se la profezia della Bibbia si avverasse e ci fosse un vero e proprio diluvio universale. Voglia il cielo che non ci sia quel diluvio, e non a causa degli errori degli umani contro se stessi. Sta a voi consegnare il messaggio al mondo, non solo all’Asia, e liberare il mondo dalla malvagità, da quel peccato" (Gandhi - Conferenza delle Relazioni Interasiatiche, svoltasi nel 1947 a New Delhi).

Le parole di Gandhi sono parole semplici, i suoi messaggi diretti, immediati, rivoluzionari nella svolta che auspicano e pacifiche nella sostanza che vogliono esprimere.
Sono parole che invitano all’umiltà i potenti, al rispetto i superbi (siano essi persone, popoli, nazioni o metodi) e alla VERITA’ chiunque, su questa terra.
La verità nelle cose, nei fatti, nelle diverse realtà di questo pianeta.
Lui parla di vera India, di veri scenari, di vera ricerca, non di panorami nascosti da veli di ipocrisia o realtà travisate dalla presunzione della superiorità.
Quando qualcuno si assume la responsabilità di raccontare un mondo, un popolo, o quando una nazione intera crede di conoscere i bisogni, la cultura, le necessità di un’altra deve prima quanto meno cercare di avvicinarsi davvero a quella realtà. E lo deve fare con profondo rispetto, entrando in punta di piedi per arrivare a conoscerne davvero il vero volto, a partire dai vicoli, dalle usanze, dalle tradizioni. La verità di un popolo viene svelata scendendo nelle sue strade, osservandone i colori, ascoltandone i suoni, perdendosi in quelle vie lasciate sempre in ombra, vivendo tra quella gente comune che spesso non ha voce, dato che i microfoni vengono puntati soltanto davanti a uomini incravattati che dovrebbero rappresentarne gli interessi, le necessità e che invece finiscono per essere fagocitati dalla logica del potere fine a sé stesso.
Occorre allargare i propri orizzonti, non farsi limitare dai pregiudizi, dalle differenze linguistiche, culturali o ideologiche.
Il messaggio di Gandhi è un messaggio di integrazione rispettosa. Premessa indispensabile per un dialogo costruttivo tra i popoli, per la costruzione di una maggiore giustizia sociale, per una equa distribuzione e ri-distribuzione delle risorse e per un utilizzo eticamente e moralmente corretto delle tecnologie e del progresso.
Occidente ed Oriente dovrebbero essere tesi ad un’armonia generale del pianeta….utopia? bè senza le utopie probabilmente tante conquiste non sarebbero nemmeno mai avvenute…e senza di esse non si avrebbe nemmeno più il coraggio di sperare...l’utopia, o quella che si riteneva tale, è sempre stata il motore iniziale, la spinta per attuare le grandi evoluzioni dell’uomo.
Preferisco chiamare quell'armonia...sogno...


giovedì 21 giugno 2012

QUESTIONE DI APERTURE MENTALI


Ognuno ha i suoi leit motiv…nei discorsi, nelle credenze, nelle propagande…
A volte sono punti fermi forti e meritevoli di tutela; altre volte sono solo paletti mentali. Non spostarsi mai dalle proprie idee, rifiutare di fare qualche passo più in là, al di là, oltre, accanto al proprio selciato, può essere, a seconda dei casi, sinonimo di tenacia o di ottusità mentale.
Chi non cambia mai idea o chi la cambia troppo spesso e repentinamente è come chi non viaggia mai o chi viaggia, senza fermarsi mai. In entrambi i casi si perde qualcosa: in un caso la scoperta, in un altro la possibilità di rendersi conto che c’è qualcosa da scoprire, prima di passare oltre.
La questione si estende in cucina: c’è chi si rifiuta categoricamente di assaggiare qualsiasi cosa trascenda la sua acquisita (e magari scarsa…) conoscenza alimentare e chi ingurgita tutto, senza assaporare niente.
Uno sguardo vivace e curioso si estende verso ampi orizzonti; uno sguardo con il paraocchi è per forza di cose un punto di vista limitato.
A tavola vale lo stesso principio: chi ha le papille curiose potrà sempre farsi dei grandi viaggi intorno al mondo del gusto, pur restando davanti al suo piatto. Chi le tiene sempre legate alle proprie abitudini non andrà oltre a quel piatto di pasta al solito sugo o alla sua cotoletta (per carità…buonissimi…però…che non diventino una gabbia alimentare…).   
Tornando alla premessa, nel periodo estivo propongo spesso e volentieri questa versione di insalata di riso, che è insomma uno dei leit motiv culinari dei miei mesi caldi. Personalmente non mi piace la classica insalata di riso, fatta con i vasetti sottoli o sottaceti; al massimo posso tollerarla con l’aggiunta di qualcosa di fresco…altrimenti passo oltre.
E’ vero che il tempo è sempre poco, e che quindi rimediare in fretta un piatto ci spinge spesso davanti ai vasetti o alle confezioni del “cotto e mangiato”: un clic, una scolata, e la pietanza è pronta.
Però…se il gusto deve essere la priorità, di certo non lo si trova pronto per l’uso. Per quello è proprio necessario “metterci del proprio”.
Non è uno snobismo o una dichiarazione di guerra ai piatti pronti: è solo una constatazione amichevole ahahah…;-)

Ingredienti:
-       riso basmati (o thai)
-       melone
-       salmone affumicato
-       pinoli
-       rughetta
-       olio, sale, pepe, limone

Fate lessare il riso in acqua leggermente salata; quando è cotto al dente, scolatelo e lasciatelo raffreddare.
Intanto tagliate a pezzetti il salmone e il melone.
Tostate in un padellino antiaderente i pinoli.
Mescolate tutto al riso, aggiungete la rughetta, una macinata di pepe, un filo d’olio, mezzo limone spremuto e qualche scorzetta di limone…et voilà…volendo, potete lasciarlo un po’ nella ciotola, prima di servirlo, per far assorbire meglio i vari sapori…ma se non resistete…forchettate anche subito!! J 

mercoledì 13 giugno 2012

UNA PAUSA TEATRALE: C'ERA UNA VOLTA UN RE


L’amicizia di vecchia data è come una cassaforte dei ricordi e quando hai la possibilità di riaprire quello scrigno, tutta la vita (o meglio un pezzo di essa) ti può scorrere davanti e spesso, grazie a quei flashback, a quelle proiezioni della mente, ti rendi conto di quanto nel frattempo tu sia cambiata/o, e di quanto invece certe emozioni ti siano rimaste impresse dentro, sfidando l’erosione del tempo che tutto o quasi si porta via con sé.
Il ricordare, allora, non è un’operazione meramente nostalgica, ma l’occasione per guardare con lucidità ciò che si è stati, per capire ciò che si è diventati, o il perché.
Il valore del ricordo, dell’amicizia, della semplice quotidianità è al centro della commedia teatrale “C’era una volta un re”, scritta da Giovanna Chiarilli, con la regia di Stefano Santerini, interpretata da Patrizia Casagrande, Loredana Castrovilli, Mariateresa Di Bari e Alessandra Mancianti, ed in scena (ndr: ieri sera la prima…) al Teatro Petrolini di Roma (Via Rubattino 5) fino a domenica 17 giugno.  
Quattro amiche (Crisa, Elisabetta, Chiara e Tiziana) si ritrovano, in una serata come tante, in una casa di una di loro, a ripercorrere, attraverso i suggerimenti di un ritrovato vecchio diario risalente all’ultimo anno di scuola superiore delle ragazze, sia le tappe salienti della loro amicizia, sia il personale cammino di ognuna di loro. E’ stato condividendo prove dolorose, confidandosi reciprocamente sui propri rapporti familiari o godendo insieme di semplice evasioni giovanili che l’amicizia delle ragazze si è man mano rafforzata, riuscendo sempre a ritagliarsi un suo spazio libero e sincero nello scorrere quotidiano delle loro vite.
Nonostante sul palco ci siano solo donne, l’elemento maschile è assai presente in tutto lo svolgersi della commedia: infatti, le amiche, attraverso i racconti dei loro primi flirt e dei loro amori (passati, presenti o agognati per il futuro) portano in primo piano anche le dinamiche tra uomo/donna che, già motivo di inquietudine ai tempi del liceo, non ha mai smesso di essere un loro spunto di riflessione, di acceso dibattito e di confronto.
Ognuna delle ragazze, con la propria spiccata personalità, rappresenta un modo diverso di affrontare i rapporti, di vivere l’amore, il dolore, di impostare la propria vita: c’è chi non vuole crescere e ha la sindrome del “cordone ombelicale”, c’è la mamma vamp che riversa nel rapporto con i figli le sue fragilità, c’è la casinara sempre in mezzo alle tresche e pronta a sdrammatizzare tutto con la sua energia contagiosa, e poi c’è Crisa, la protagonista, il collante di quest’amicizia corale. Crisa è una che ascolta sempre tutti, che spesso ignora i suoi bisogni, che incappa in rapporti tiepidi con uomini a metà; è una tipa tosta, una che non si piega al cinismo, che ha il coraggio di lasciare anche le strade comode pur di inseguire la sua grande passione (quella per la scrittura) e che crede nelle fiabe, come quella che fa da leit motiv alla commedia e che tutte hanno imparato a raccontarsi ogni volta che sentivano il bisogno di andare avanti, ogni volta che c’era qualcosa da superare, nei momenti della vita in cui è bene attingere a quella sana ingenuità adolescenziale, per ritrovare forza, entusiasmo e freschezza, a dispetto del tempo, anche a dispetto dell’inevitabile impermanenza della vita:
“C' era una volta un re seduto sul sofà che disse alla sua serva raccontami una storia e la storia incominciò…”

E a me questa storia, la storia di uno spaccato di vita semplice è piaciuta molto, perché riesce a trasmettere il calore e la confidenzialità vivace e rassicurante dell’amicizia, quell’abbraccio che i ricordi condivisi sanno donare alla propria anima.



martedì 12 giugno 2012

C'E' UN TEMPO PER OGNI COSA...O QUASI



Quante volte, ci lamentiamo di non avere tempo per fare le più svariate cose? Non abbiamo mai tempo per fare quella telefonata ad un amico distante, non c’è tempo per preparare una torta per la colazione, per fare il bucato o una spesa rilassata al mercato. Non ci permettiamo mai di trascorrere del tempo stando semplicemente seduti su un gradino in un giardino, su una panchina in un parco o comunque all’aria aperta a osservare il cielo, a guardarci attorno, o meglio ancora, dentro, per fermarsi e pensare. Sembrerebbe, in quel caso, di sprecarlo il nostro tempo. E invece in quali ben altri modi avviene, ogni giorno, quello spreco!! 
Siamo fagocitati dalle lancette che scorrono e dagli impegni dettati dal planning lavorativo o dal tentativo di mantenere una vita sociale attiva che diventa poi in realtà tanto frenetica quanto superficiale. E intanto la nostra vita scorre, a prescindere da quelle che, invece, sarebbero le priorità del nostro spirito. E se non ci restasse che una manciata di ore o di minuti, e ne avessimo consapevolezza, come lo trascorreremmo? Cosa vorremmo dire e a chi? Quale immagine vorremmo fissare nel nostro ultimo sguardo?
Nel film “IN TIME” (diretto da Andrew Niccol, uscito negli Stati Uniti nel 2011 e solo recentemente distribuito anche nelle sale italiane), il tempo diventa denaro. E per avere tempo, e quindi anni, giorni, ore o minuti di vita, occorre procacciarselo, scambiando i propri servizi, giocando d’astuzia, o rubandolo agli altri.
Siamo in un futuro non meglio identificato, in una realtà in cui, al compimento dei 25 anni, si finisce di invecchiare e si resta, potenzialmente giovani per sempre.
Ma quel “sempre” bisogna poterselo permettere. Il tempo a disposizione delle persone è stampato sulle loro braccia come fosse un orologio digitale fluorescente; questo può essere ricaricato altrimenti si blocca arrestando, di colpo, anche la vita di chi lo indossa.
In questa realtà caratterizzata dal capitalismo biologico, in cui ogni cosa ha un prezzo in termini di “tempo da vivere” (4 minuti per un caffè, 1 giorno per l’affitto) ci sono i poveri, come  il protagonista Will Salas (interpretato da Justin Timberlake) che ha 25 anni da 3 anni, vive in un ghetto e si guadagna il tempo da vivere giorno  per giorno e poi ci sono i ricchi che arrivano ad accumulare persino milioni di anni, conquistando una sorta di immortalità.
Grazie ad un incontro fortuito, l’orologio vitale di Salas viene ricaricato di oltre un secolo.
Anche per vendicare la morte ingiusta della madre, Will vuole rivoluzionare il sistema ingiusto e spietato: si reca quindi nella Time Zone, una Zona Esclusiva degli Immortali per elaborare un piano rivoluzionario di redistribuzione del tempo. Qui si svolge quindi tutta la parte d’azione del film, in cui Will, che viene aiutato nell’impresa da una ereditiera, Sylvia Weiss (interpretata da una statica ed algida Amanda Seyfried) che rinuncia al suo mondo protetto, sofisticato come il suo aspetto, ma alquanto finto, è continuamente inseguito e braccato dai controllori del tempo (una sorta di broker temporali) che hanno il compito di mantenere lo status quo, in cui il valore del tempo resti appannaggio dei pochi che se lo possono già permettere.  
E’ un film con un ritmo avvincente e una buona idea di fondo: è stimolante fermarsi a riflettere sulla similitudine tra quella realtà immaginaria in cui il tempo è merce di scambio, diventando strumento e motivo di lotta tra gli individui, e la nostra vera realtà in cui la stessa funzione viene assolta dal denaro.
Quanta violenza viene perpetuata e quanti crimini vengono commessi, là per conquistare l’immortalità e qui per accumulare ricchezze? In time, al di là delle pecche di approssimazione delle scene di rocambolesca azione, al di là degli inflazionati inseguimenti a bordo di macchine rombanti e della limitatezza degli scenari (giustificata però da un budget, piuttosto basso, sul quale ha potuto contare la produzione), suggerisce in modo semplice, ma non banale delle considerazioni su temi sempre attuali: le ingiustizie tra classi, l’importanza del modo in cui si decide di vivere il proprio tempo perché non sia (come del resto il denaro) un privilegio in mano a pochi eletti o non diventi, invece, un’arma impropria in mani indistinte e incapaci di gestirlo.


E passando in cucina…ecco uno sfizio a tempo di record: salatini di pasta sfoglia…

Ingredienti:
-         pasta sfoglia rettangolare
-         un po’ di latte per spennellare


Dovete semplicemente ritagliare delle strisce dal rettangolo di pasta sfoglia e arrotolarle a modi spirale a formare dei grissini arrotolati.
Spennellare con il latte e infornare a forno caldo a 180^ per circa 15 minuti.
Se volete potete aggiungere sulla superficie (prima di infornare) dei semi di sesamo o di papavero. Come vedete dalla foto, in questo caso la mia dispensa era sprovvista di tali elementi decorativi ;-)

mercoledì 6 giugno 2012

DOLCETTO PATATOSO



Ci sono persone che vanno d’accordo con tutti. Hanno il sorriso aperto, il viso disteso e i modi garbati.
Non sono dei miracolati sociali: è che ognuno ha il suo carattere.
Poi ci sono quelle che brontolano sempre, scontrose, perennemente in lotta con qualcuno o qualcosa, quelle persone che, come si suol dire, “non si fanno mai saltare la mosca al naso”…ma spesso, aggiungo io, nemmeno un moscerino…
Non bisogna lottare per diventare ciò che non si è. Certo non ci si può lamentare di non riuscire a costruire sereni rapporti con gli altri, se per primi, al di là del carattere, non ci si pone con la giusta predisposizione d’animo.
Sono sempre stata convinta e lo sono sempre più fermamente a mano a mano che cammino nei sentieri del vivere, che le persone non cambiano. Intendo dire che i CARATTERI delle persone non si cambiano. E' inutile convincersi di poter compiere questa “missione”, facendosi promotore di cambiamenti caratteriali sul proprio IO o sulle persone che ci gravitano attorno.
E' come se il carattere fosse integrato nel nostro DNA; è il nostro marchio di fabbrica , le impronte digitali stampate sulla nostra anima, il timbro di autenticità impresso alla nostra persona.
Nessuno cambia nessuno. Certo, si possono smussare certi spigoli del proprio carattere, ma quello di fondo, che racchiude l'indole, il temperamento, il modus vivendi, la visione delle cose...bè quello rimane la variabile costante nell'equazione del nostro essere.
Per portare il discorso in cucina…penso che ci sono ingredienti che, come certe persone, dove li metti metti, stanno sempre bene. Prendete le patate. Al forno, lesse, fritte, a stick, a fette, a spicchi, come purè, crocchette, dentro gli gnocchi, sopra la pizza…in genere riscuotono sempre un gran consenso delle papille gustative.
Ma…avreste mai pensato di mettere le patate anche dentro un dolce??
Ebbene si. Un dolcetto sfizioso, goloso e adatto anche ai celiaci, perché non contiene farina.
Ho preso spunto da un dolce preparato da Alessandro Borghese nel programma di Real Time “In cucina con Ale” (http://www.realtimetv.it/web/cucina-con-ale/), però io l’ho modificato, rinunciando al rum e utilizzando al posto dell’uvetta dei pezzetti di cioccolato fondente.
Ecco la ricetta:

Ingredienti: 
-       400 gr di patate lesse
-       120 gr di zucchero di canna
-       50 gr di olio evo
-       3 uova
-       50 gr di farina di mandorle
-       ½ bustina di lievito biologico
-       Pezzetti di cioccolato fondente

Separate i tuorli e frullateli con lo zucchero. Poi schiacciate le patate e frullatele assieme al composto. Aggiungete l’olio, la farina di mandorle, il lievito e i pezzetti di cioccolato. Mescolate delicatamente con una spatola per amalgamare il tutto. Versate il composto in una teglia foderata di carta forno e spennellate la superficie con gli albumi rimasti. Infornare a 180° per circa 35/40 minuti. Quando si fredda, con una formina tonda, si possono formare tanti piccoli tortini.

lunedì 4 giugno 2012

CUOR DI CILIEGIA



“Ti cerco nel riflesso di un ruscello,
nell’immagine di un acquerello,
mentre mi aggiro guardinga per vicoli stretti
o corro a perdifiato per viali alberati…
Mentre giro pagine di libri eruditi
o sfoglio riviste di realtà patinata…
A volte mi tenti quando sto in mezzo alla gente.
Nel frastuono riesco a immaginare
la quiete che mi darai…
Dopo mille rumori, suoni e parole
stenderai su di me
un velo di carezzevole silenzio…
a te confiderò i miei dilemmi…
tra le tue braccia cercherò conforto…
e nel tuo ascolto troverò le risposte…
ah amata solitudine!!!”

Stare bene con se stessi rappresenta per molti uno status scontato, ma per molti altri, invece, è una conquista che tarda sempre ad arrivare. I presupposti sono la volontà di conoscersi (ma…conoscersi nel profondo) e la disponibilità ad affrontare un cammino che può (anche) essere impervio, ma senza il quale non riusciremmo a far emergere, e superare, anche le nostre zone d’ombra.
Una conoscenza a tutto tondo di se stessi è il primo passo per riuscire ad assestarsi, investire nei propri punti di forza e prendere confidenza con le proprie debolezze, che non sono macchie indelebili, ma pennellate di colore da stemperare con cura nella tela che ci rappresenta.
Se noi, per primi, ci accontentassimo di quell’immagine che riteniamo “accettabile”, come potremmo vivere un’esperienza di vera conoscenza con la nostra anima e con quella di coloro che vogliamo tenere per mano lungo il cammino della nostra vita? Potremmo farcela, certo. Ma al costo di interpretare, non vivere, la vita di qualcuno/a che non siamo noi…
Spesso si cerca nell’altro/a, negli altri, la formula magica per stare bene. Ed ecco scattare le dinamiche di compensazione: “mi mostro in questo modo così tu mi vorrai bene e io poi starò bene”. Oppure “devo comportarmi in questa maniera così sarò apprezzata e poi potrò stare bene” ecc. ecc. Il nostro benessere viene sempre relegato ad un “POI” condizionante.
L’esterno diventa la conditio sine qua non di uno stato che dovrebbe essere coltivato a partire dal nostro interno.
Il giudizio degli altri, il loro apprezzamento diventa l’unità di misura del nostro stare bene. E così facendo, restiamo dei dipendenti (pure precari) dell’altrui volontà.
Se quell’interno rimane sommerso, costretto, relegato, non arriveremo mai a trovare la chiave giusta che apre le porte del nostro benessere.
Non si nega l’impatto che l’esterno può avere sul nostro equilibrio: non siamo di gomma, e non siamo impermeabili (per fortuna, aggiungo…).
Ma a maggior ragione se quell’intenzione di equilibrio non la facciamo poggiare su di una base interna solida e autentica, da plasmare nei momenti di raccoglimento, allora il nostro procedere, continuamente esposto agli sgambetti dell’esterno, diventerà come lo sventolio di una bandiera esposta ai venti…
Se l'interno è già cedevole, l'esterno lo sgretola del tutto.
E ora, dopo aver riflettuto un pò sul senso positivo che può avere una serena solitudine, passiamo al nostro dolcetto che sa di ciliegie e di primavera…da gustare da soli o anche in amorevole compagnia, perché stare bene con se stessi non è crogiolarsi nel proprio ego, ma saper apprezzare i momenti di solitudine, come anche assaporare il gusto di un momento condiviso, che sarà di vera condivisione, perché vissuto nella libertà del proprio essere…
La ricetta base l’ho tratta dal blog “Cavoletto di Bruxelles” ( http://www.cavolettodibruxelles.it/2008/07/la-torta-di-ciliege); io vi ho apportato qualche modifica…

Ingredienti:
-       100 gr di farina di kamutt
-       120 gr di zucchero di canna
-       100 gr di farina di mandorle
-       80 gr di burro
-       2 uova intere
-       1 cucchiaino di lievito biologico
-       Ciliegie denocciolate
-       un pizzico di sale

Mescolate il burro ammorbidito con lo zucchero, aggiungete la farina di mandorle, le uova; unire la farina, il lievito e il pizzico di sale. Mescolate per bene.
Versare l’impasto in una tortiera di 22 cm di diametro e cospargete la superficie di ciliegie denocciolate (schiacciandole un po’ all’interno dell’impasto) e infine spolverate di zucchero di canna.
Cuocere in forno caldo a 180^ per circa 45 minuti.









venerdì 1 giugno 2012

GIOCANDO SI IMPARA...A SORRIDERE


Se… nonostante:
- qualche responsabilità bussi man mano alla nostra porta,
- il caffèlatte abbia già sostituito da tempo la tazzona di latte e Nesquik,
- abbiamo imparato la differenza tra le domande opportune e l’inopportunità di farle,
- abbiamo capito che non sempre c’è un perché ai nostri mille perché,
- siamo in grado di distinguere tra un “lo voglio” capriccioso e un “lo voglio” desideroso,
- sappiamo che le fantasie non hanno limiti, ma le possibilità di attuarle qualche volta sì,
- riusciamo ad adeguare tempi, modi, a controllare parole e forme, ad attivare i filtri che “servono”, dosandoli con il coraggio dell'autenticità,
- abbiamo imparato quanto sia necessario, per la propria evoluzione, liberarsi dei condizionamenti esterni ed emanciparsi dagli schemi preconfezionati e dal bisogno di trovare sempre la pappa pronta,
insomma…se nonostante il passare degli anni, manteniamo quella sana voglia di giocare, di divertirci con poco, bè…forse la quotidianità ci sembrerà più fresca e meno burocratica…ancora profumata di talco di fanciullesca memoria...  
se poi questa capacità di godere del lato giocoso della vita la trasferiamo anche nel piatto…otterremo, oltre alla soddisfazione  dei commensali, anche il loro sorriso. E quello, è decisamente il valore aggiunto. 

E in virtù di questo…ecco gli animaletti giocosi di cous cous…la foto con gli stampi ribaltati purtroppo non è venuta bene, ma almeno così c’è anche un po’ di colore a fare da cornice…;)

Ingredienti:
-                   cous cous di mais e riso biologico
-                   pomodorini pachino
-                   pisellini freschi da sgranare
-                   salmone affumicato
-                   dadini di formaggio
-                   olio, una spruzzata di limone

Preparate il cous cous come da indicazioni sulla confezione (se prendete quello precotto che si trova in tutti i supermercati). In genere bisogna far scaldare uno o due cucchiai di olio in un tegame largo. Poi bisogna far tostare il cous cous, coprirlo con del brodo, mettere il coperchio e far riposare qualche minuto. Poi si sgrana il cous cous con una forchetta.
In un’ampio contenitore mescolarlo con i pomodori pachino, i pisellini freschi sgranati, i pezzetti di salmone e i dadini di formaggio. Aggiungete un filo d’olio e una spruzzatina di limone.
Per renderlo giocoso, versare il cous cous in formine stravaganti e dopo un po’, ribaltate e buon divertimento..cioè buon appetito J