martedì 12 febbraio 2013

"LA MIGLIORE OFFERTA" di oggi non è un piatto ma un film....



E’ difficile commentare un film evitando di svelare particolari che rovinerebbero la visione di chi magari quel film non l’ha ancora visto, soprattutto quando è dall’epilogo finale che dipende fondamentalmente la soddisfazione o meno nell’averlo visto.  
Ci provo con “La migliore offerta”, di Giuseppe Tornatore, nelle sale già dal 1° gennaio e che ha riscosso un notevole successo di pubblico e critica.
Vorrei innanzitutto sottolineare quelli che, secondo me, sono i punti di forza di questo film: 1) eccellente interpretazione dell’attore protagonista, Geoffrey Rush, intenso, complesso, camaleontico, capace di incarnare attraverso i suoi gesti e le sue espressioni l’evoluzione di un uomo maturo, eppure ancora vergine nei confronti delle dinamiche sentimentali; 2) una regia precisa, maestosa, rigorosa, elegante ed un ritmo narrativo teso e vibrante come solo i migliori thriller psicologici riescono a sostenere e che fanno trascorrere due ore davanti allo schermo, senza accorgersi dello scorrere del tempo; 3) musiche composte da Ennio Morricone, un nome, una garanzia nella capacità di riempire di suspence emotiva le sue composizioni; 4) la suggestione degli ambienti, senza tempo e senza luogo, quasi a porre in primo piano le variabili emotive e la soggettività dei punti di vista, rispetto alle coordinate oggettive; 5) una struttura originale e mai banale, in molte sequenze la costruzione della vicenda potrebbe sembrare un tantino confusa e/o lacunosa, e forse lo è; ma io considero questa mancanza di pezzi del puzzle una licenza autoriale e registica di chi sa dove vuole condurre lo spettatore e quello è il suo obiettivo, prioritario rispetto alla rivelazione di dettagli, minuzie, prioritario rispetto alla stessa eventuale credibilità della vicenda. Ho letto molte recensioni in cui il meccanismo del racconto viene giudicato fin troppo congegnato, tanto da renderlo artificioso e falso. Il mio unico disappunto invece non è legato alla vicenda, che secondo me è sapientemente messa in scena, ma dal fatto che come spettatrice, la mia aspettativa nei confronti del messaggio implicito che mi sembrava potesse essere trasmesso dal film, è andata tradita. Ma questo è un “problema” mio; l’aspettativa è attendersi un qualcosa creato, a torto o a ragione, per convinzione o bisogno, dalla propria mente. Lo scopo di un regista, invece, non credo sia quello di rispondere alle aspirazioni filosofiche di chi guarda una sua opera. E quindi, con buona pace del mio idealismo, assolvo la scelta di spostare il punto di vista e di girare, inaspettatamente e anche in un verso antiorario, se occorre, la chiave di lettura di una vicenda: da ciò che avviene nell’animo del protagonista (lo sgretolamento dei suoi limiti, l’arrendevolezza dei suoi sensi, l’accettazione della sua vulnerabilità) si passa ad una vicenda più materiale e di crudo realismo, dipinta nell’ambiente stesso in cui egli si trova ad operare.
Ad un certo punto ho vacillato, accorgendomi che pian piano l’evoluzione esistenziale del protagonista non mi avrebbe portato dove, da sola, mi stavo conducendo; mi sono chiesta se forse stavo male interpretando gli indizi che il regista ha disseminato qua e là. Virgin è un uomo ricco, misogino, perfezionista ai limiti della maniacalità, eccellente come battitore di aste, ma un disastro nei rapporti interpersonali, un uomo che pone tra lui e gli altri una barriera, metaforizzata dai guanti di pelle con i quali usa proteggersi le mani da qualsiasi contatto con l’esterno, uno che ama le donne solo come immagine, come soggetti di quadri di cui potersi circondare, senza correre rischi, senza provare emozioni, se non quelle esteriori e di superficie (“"L'ammirazione che provo per le donne è pari al timore che ho di conoscerle" confessa Virgin). Ad un certo punto un uomo così ostile, rigido, s’imbatte in Claire, una giovane ragazza, misteriosa ed affascinante che lo porta, lentamente e inesorabilmente, nonostante qualche iniziale e reiterata resistenza, a sperimentare una trasformazione dei sensi, ad accorgersi di quanto siano fragili le costruzioni della mente rispetto alla forza impetuosa di un cuore risvegliato. Come lui, anche Claire attua un distacco dal mondo; in lei ciò si manifesta in una patologia che non le consente di uscire dalla sua camera. Gli spazi aperti e il possibile contatto con la gente le causerebbe attacchi di panico. Virgin è attirato da lei in un vortice esistenziale. In quell’incontro pare scorgere una grande opportunità: la possibilità di fungere da salvatore di una donna fragile (in fondo fragile come lui) e allo stesso tempo salvare sè stesso da quell’approccio freddo e impermeabile ai rapporti che lo ha reso un uomo solo. Questo è ciò che restituisce autenticità alla vita controllata e condizionata di due persone che il destino ha fatto incontrare ed è ciò che facilita la comprensione e l’interpretazione dello spettatore che si sente premiato dall’aver riposto fiducia in una possibile chiave di svolta esistenziale. Ma da un film ambientato nel mondo delle opere d’arte e dell’antiquariato, dove gravitano soldi, talento, ambizioni e desideri di riscatto (dall’anonimato o dalla mediocrità) è più giusto aspettarsi un messaggio di autenticità o la rappresentazione di un falso d’autore? E se è vero, come cita lo stesso Virgin, che “in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di vero” non sarà allora facile dare un’interpretazione univoca ai segnali e alle percezioni. A voi la scoperta.  



 



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