giovedì 12 luglio 2012

IL DISTACCO COME BLACK OUT...


Un film che definisco, al tempo stesso, brutale e delicato, violento e pacato, che in molte sequenze ti da pugni nello stomaco e in altre, stimolando riflessioni profonde, non può che accarezzare le corde più sensibili del pensiero, a dispetto dell’iniziale sensazione claustrofobica di allucinazione metropolitana. Un film d’impatto emotivo notevole e immediato che riesce a far commuovere con pochi elementi e che si svolge in un ristretto spazio ambientale. Tutto il pathos del racconto è affidato agli sguardi intensi dei suoi protagonisti, a mani fuori campo che tratteggiano le dinamiche rappresentate, a lacrime intrise di malinconia che rappresentano le sbarre di quella prigione dell’anima che impedisce agli occhi dei personaggi di ammirare orizzonti diversi rispetto a quelli che gli si parano davanti. Sullo schermo, il regista ci regala inquadrature strettissime e a tratti traballanti, quasi a sottolineare l’aspirazione documentaristica del lungometraggio e lo scombussolamento, anche fisico, che provoca una narrazione del genere. Le luci cedono il posto ad ombre e ad atmosfere underground, abbracci disperati o liberatori sciolgono la morsa del pessimismo cosmico, la voce narrante è il flusso di coscienza dello stesso protagonista che scorre man mano direttamente sugli spettatori. Le vicende, messe in scena con spregiudicata crudezza, si svolgono all’interno di luoghi ben rappresentativi di quella decadenza fisica o psicologica della società che il film vuole rappresentare. 
Non c’è una struttura che distrae, non ci sono fronzoli, panorami mozzafiato o abbellimenti scenografici: solo una scuola dalle pareti asettiche, strade squallide, interni essenziali. Quasi a voler far risaltare solo l’interiorità dei personaggi, il senso di alienazione, di annichilimento che porta, chi lo subisce, a distaccarsi dai rapporti, dai sentimenti, dalla sua stessa vita.
Il protagonista è Henry Barthes (interpretato da un cupo ed espressivo Adrien Brody), un professore che viene assunto come supplente in una scuola di periferia che accoglie e raccoglie, e tenta di dare una formazione a quelle frange più disperate e alla deriva della gioventù. Inizialmente Henry dà l’idea di un professore simile a quello de “L’attimo fuggente”, uno che  tratta i ragazzi alla pari, che sa conquistare la loro fiducia, li scuote, li incita a coltivare il proprio coraggio, ad essere consapevoli delle proprie scelte, a mantenere la propria capacità di giudizio rispetto ai facili impulsi e ai modelli preconfezionati offerti dall’omologazione sociale.
Uno, che rivolgendosi ad una studentessa complessata, le infonde coraggio recitandole: 
“...non è indispensabile essere forti, sai? ...quello che conta davvero è che molte persone mancano di consapevolezza...è fondamentale che tu lo tenga ben presente Meredith, perché ne incontrerai sempre...a qualsiasi età...”.
Ho usato il verbo “recitare” perché dietro la facciata saggia del professore emerge un uomo fragile che non ha superato i traumi e le batoste del suo passato e che non essendo interprete autenticamente convinto delle sue stesse lezioni di vita, finisce per sembrare un mero attore al quale sia stato affidato il ruolo di insegnante.
Henry, sul piano teorico, è un tipo forte. Sa ottenere, grazie al suo bel parlare e al suo saper professare “le idee giuste”, la fiducia e il rispetto anche dei ragazzi più difficili che, pur in silenzio, chiedono disperatamente aiuto a chi li sa ascoltare o semplicemente prendere in considerazione. Riesce a stimolare in loro la speranza che possa esserci un domani migliore, in grado di riscattarli da un presente problematico e rabbioso. Ma ad uno sguardo più approfondito ci si rende conto che lui, in realtà, si limita a leggere pagine di erudita saggezza, senza riuscire a metterne in pratica, per la sua stessa salvezza, la sostanza.  
Al di là della sua saggezza teorica, c’è infatti un uomo impenetrabile, che vaga randagio nella notte tentando di alienarsi dai ricordi e dai traumi del passato, che ha fatto del distacco emotivo la sua arma di difesa per tenere gli altri e se stesso a distanza. E’ un uomo che porta impressa nella sua anima una ferita che viene da lontano, mai superata: una ferita che parla di soprusi e tragedie familiari, di silenzi, di abbandono. I flashback dolorosi della sua infanzia lo stordiscono, rendono cupo il suo sguardo, superficiale e in alcuni casi vano il suo tentativo di aiutare chi gli si avvicina, perché dietro la sua facciata si cela una profonda fragilità, un percorso interiore tormentato e accidentato. Al di là della filosofia professata, lui stesso è l’emblema del vuoto, perché impermeabile a quello scambio autentico tra anime, che può comportare sì sofferenza, ma dal quale può anche sgorgare fiducia, emozione, conforto.
Henry è un tipo che, con lo strumento della consapevolezza ha scoperto le origini del suo male di vivere, della sua malinconia, ma ciò non gli ha permesso di evolvere. Non riesce ad andare oltre lo scoglio di un’infanzia violata. Se lo facesse si ritroverebbe in mare aperto, in balia delle onde, ma almeno questo non significherebbe restare vuoto.  Andare oltre vorrebbe dire esporsi alle sfide rischiose del vivere, mentre lui pare volersi accontentare di una rassicurante, teorica quanto superficiale sopravvivenza.
Entra ed esce dalla vita delle persone, dalle aule delle scuole, senza approfondire, restando una semplice parentesi.
Solo una prostituta bambina, nella quale incappa per caso in uno dei suoi vagabondaggi notturni per la città, lo scuote a tal punto da farlo uscire in parte dal suo isolamento affettivo: infatti per tentare di salvarla dalla strada e dalla violenza feroce dei suoi clienti, la ospita addirittura a casa sua, offrendogli quindi non solo parole, insegnamenti teorici, ma un sostegno concreto. Anche in questo caso però la complessità dei rapporti umani provoca un altro distacco: infatti Henry si sentirà costretto ad allontanarla per evitare di alimentare l’anelito amoroso della ragazzina nei suoi confronti, frutto del suo disperato bisogno affettivo, e che avrebbe reso ambiguo un rapporto puro e platonico.
Il film mette ben a fuoco le debolezze umane, i limiti, le disillusioni, ma anche la ferocia della rabbia, l’amarezza di fronte a quello che, per alcune anime indifese, pare essere un destino inesorabile e segnato, la difficoltà nel rivestire ruoli formativi, il peso della responsabilità che grava sulle spalle delle figure educative (quali sono insegnanti e genitori). Queste infatti non possono illudersi di poter assolvere, con successo, la loro funzione solo con le parole, “predicando bene e razzolando male”, ma devono mettersi in gioco con tutto il loro essere, affrontando in primis i propri traumi per superarli prima che siano questi a insabbiarli nel terreno dell’oblio. Senza una preventiva evoluzione di se stesso, un educatore non può illudersi di raggiungere gli altri o di fornire loro gli strumenti necessari per affrontare la selva della vita: l’esempio, infatti, arriva dritto al cuore di chi si affida a lui, prima ancora delle pagine ben scritte di un manuale che vorrebbe insegnare la vita.







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